Il nostro quarto giorno a Kobane è stato veramente intenso e ricco di incontri e discussioni. Iniziamo dal mattino con una visita all’ambulatorio di Heyva Sor a Kurdistan, la mezzaluna rossa kurda. Quando arriviamo l’ambulatorio è già pieno di gente, e veniamo ricevuti dalle responsabili della struttura che ci presentano il loro lavoro a partire da una descrizione generale delle condizioni del comparto sanitario nel cantone. La guerra ha colpito pesantemente le infrastrutture sanitarie. Attualmente sono stati riaperti 23 ambulatori nella regione, compreso quello che visitiamo, che ha ripreso la sua attività da appena una settimana. Nei villaggi la stragrande maggioranza degli ambulatori sono ancora chiusi. Mancano materiale sanitario, medicine e medici, in maniera particolare pediatri e ginecologi.
La mezza luna rossa kurda ha storicamente avuto difficoltà ad operare perché il suo nome è stato sempre associato al PKK. Oggi gestisce due centri; di altri due la riapertura è prevista nelle prossime settimane. Le attività principali sono rivolte appunto alle donne e ai bambini. Ad esempio da un mese, ogni 15 giorni, distribuiscono latte in polvere, provando a offrire una copertura a circa 200 villaggi su un totale di 360 del cantone. Il latte a disposizione non basta: di fatto ogni famiglia ha accesso al latte distribuito circa una volta ogni due mesi.
Dall’ambulatorio di Kobane passano circa 300 persone al giorno. Anche durante la guerra l’attività ambulatoriale non si è mai interrotta, si svolgeva nelle case, grazie a personale dell’organizzazione rimasto in città per prestare le cure più urgenti ai feriti. Nell’ambulatorio della mezzaluna rossa curda lavorano 25 persone che svolgono tutte attività volontaria. Insieme a loro collaborano anche altre 22 persone che fanno parte dell’equipe dell’ospedale ma non hanno posto per lavorare e dunque sono nella struttura in supporto. L’ospedale militare non ha energie da offrire in supporto.
“L’embargo” di fatto cui è sottoposto il cantone di Kobane, fa sì che anche le dottoresse e le infermiere che incontriamo sottolineino l’urgenza di un’apertura del confine turco per consentire il passaggio degli aiuti. La situazione di guerra che continua a tenere separata Kobane dal resto del Rojava, impedisce l’arrivo anche della solidarietà che potrebbero offrire gli altri due cantoni della regione. Ad oggi in Kobane sono riuscite ad arrivare due spedizioni di farmaci. Entrambe le spedizioni erano partite dalla Germania, ma una delle due consisteva in un container di farmaci che sono arrivati già scaduti a causa delle lunghe attese al confine e dunque in larghissima parte inutilizzabili. Sempre dalla Germania sono arrivate anche 4 ambulanze. Gran parte di questi primi aiuti sono stati destinati all’ospedale militare, che per lungo tempo è stato l’unico presidio sanitario ad operare nella città.
Anche l’ambulatorio è ovviamente vittima della mancanza di elettricità che qui è ancora più grave, in maniera particolare per quanto riguarda la conservazione dei farmaci: pochi frigoriferi, in grado di funzionare solo per qualche ora al giorno, e una situazione destinata a peggiorare con l’arrivo dell’estate.
Tra i molti problemi il personale sanitario sottolinea inoltre la necessità di diffondere un’educazione all’igiene che limiti il proliferare di malattie.
La mattinata di incontri prosegue presso la sede dell’Associazione delle Famiglie dei Martiri. Incontriamo i due co-presidenti insieme ad altri familiari di partigiani e partigiane caduti. Anche durante questo incontro arriviamo in un posto aperto da pochissimo tempo, segno di una città che sta riprendendo a vivere con tenacia. La sede dell’associazione è luogo di riferimento per moltissime famiglie e svolge attività di socialità e di sostegno. Questa cerca di risolvere i bisogni più immediati ridistribuendo risorse provenienti dalla municipalità, le disponibilità economiche sono scarse, anche a fronte del fatto che nel cantone di Kobane sono circa un migliaio le famiglie dei martiri. Vengono anche distribuiti generi alimentari, raccolti in città. Capiamo che la solidarietà è forte, perché il riconoscimento sociale verso le famiglie dei martiri è molto alto. Oltre che dal cantone aiuti importanti arrivano dal movimento, ci viene ad esempio raccontato di diversi container di vestiti inviati dalla Svizzera, destinati ai figli e alle figlie dei martiri.
Oltre questo, l’associazione ha anche in carico progetti specifici per la conservazione e la trasmissione della memoria: cercando di ricostruire i luoghi nei quali i combattenti sono caduti.
Ci sono anche un centinaio di partigiani di cui non si hanno notizie, e l’Associazione sostiene le famiglie in questo lavoro di ricerca di informazioni sui propri cari. Il cantone di Kobane viene già definito da molti il Cantone dei Martiri. Durante l’incontro abbiamo avuto anche la possibilità di discutere di alcune caratteristiche del movimento rivoluzionario Kurdo, di confrontarci con i compagni e le compagne dell’Associazione rispetto al ruolo e alla figura di APO (Abdullah Ocalan), e soprattutto di conoscere uomini e donne che con grande determinazione continuano la lotta che portavano avanti i loro cari caduti combattendo, nella consapevolezza una volta di più che senza memoria non c’è futuro.
Poco distante dalla sede dell’Associazione delle Famiglie dei Martiri di trova la Casa del Popolo. Ci colpisce, ed è tra le prime cose che ci raccontano, la storia dell’edificio che la ospita, un vecchio edificio coloniale francese, poi sede della polizia, fino ad assumere il ruolo di uno dei motori delle istanze di base del confederalismo democratico. Aperta dalle 8 alle 20 ogni giorno, la Casa del Popolo promuove autorganizzazione dei consigli di quartiere 13 in tutto, che sono suddivisi in 6 comitati: istruzione, tematiche giovanili, donne, economia, problematiche sociali, sicurezza. Come già durante l’incontro alla municipalità anche gli anziani che ci accolgono ci spiegano l’importanza dei consigli. La Casa del Popolo è luogo di attività sociale, strumento di partecipazione e mediazione dei conflitti. Le sue attività non si esauriscono all’interno dell’edificio, i 9 volontari sono un vero e proprio punto di riferimento sul territorio, dal micro al macro, dai problemi tra vicini alla costruzione dell’ossatura di un nuovo modello di democrazia reale dal basso.
Per l’ultimo incontro della giornata ci rechiamo presso la sede del Comitato per l’Istruzione e per la lingua Curda, formato da 13 rappresentanti che però non ha ancora i copresidenti, che saranno eletti dopo aver incontrato i Comitati per l’istruzione degli altri due cantoni. Il regime di Baat ha sempre emarginato e represso duramente le aree di cultura curda, anche per quanto riguarda l’istruzione, i docenti erano assolutamente insufficienti per le esigenze. Il sistema scolastico era basato su un’istruzione di regime, la lingua curda era vietata in tutto il territorio siriano, e nelle aree a maggioranza curda non c’erano università. Dopo la rivoluzione è stata necessaria quindi una grande opera di formazione anche della classe insegnanti, oltre che di risistemazione delle strutture, che spesso è stata portata avanti dagli stessi docenti aiutati dagli studenti. Attualmente la città di Kobani ha 300 insegnanti e 6000 studenti, divisi su tre scuole, nei paesi intorno alla città sono già state realizzate un decina di strutture, ma nel cantone ci sono ancora 10’000 ragazzi che non hanno accesso allo studio. Nelle aule si impara la storia, la lingua e la grammatica curda, ma, a seconda delle esigenze degli allievi, ci sono anche ore di arabo, religione islamica o cristiana oltre all’inglese e alle materie scientifiche. I bambini sono profondamente segnati dall’esperienza della guerra, che li circonda ormai da quattro anni, quasi tutte le famiglie hanno perso qualcuno, i disegni sono disegni di sangue e le canzoni sono canzoni di battaglie e rivoluzione. Questa situazione di emergenza rende ancora più difficile concepire un nuovo metodo di insegnamento che in realtà è ancora da definire ma che vorrà insegnanti e alunni complici e che ci è sembrato già essere sostanzialmente paritario, se non altro per la vicinanza di età tra insegnanti e studenti. I membri del comitato ci fanno capire che hanno ancora bisogno ti tutto, dal materiale di consumo come penne e quaderni ad intere strutture scolastiche.
Appare sempre più evidente la necessità di solidarietà reale da parte degli internazionali che non si limitino all’autoreferenzialità o alle promesse. Fin dai primi incontri, dal comitato di ricostruzione alla casa del popolo, l’appello è ad un aiuto pratico effettivo, duraturo e coordinato.
Vorremmo concludere questa testimonianza con le parole della Sig.ra Muslim, responsabile della casa del popolo:
“L’interesse internazionale che abbiamo ricevuto durante la resistenza troppe volte si è ridotto a tante parole e promesse poi non rispettate. Siamo stufi dei giornalisti che vogliono farsi pubblicità sulla nostra pelle. Abbiamo difeso l’umanità tutta, non solo i kurdi e vi chiediamo di aiutarci in ogni maniera possibile. La resistenza e la ricostruzione sono una responsabilità collettiva. Abbiamo fermato i daesh ell’interesse di tutte le donne e ora non capiamo che fine hanno fatto le donne dell’Europa, perché la nostra rivoluzione è anche per loro. Non vediamo più quell’appoggio internazionale che vedevamo nei primi mesi, ma anche dopo la resistenza abbiamo continuato a morire perchè nessuno è venuto ad aiutarci a togliere le mine, ci mancano i tecnici, ci mancano molte cose. Il mondo ci ha lasciato un po’ da soli, il nostro popolo ha speranza e convinzione nella fraternità tra i popoli e per difendere questo senso di fratellanza ed amicizia bisogna fare qualcosa insieme”.
Carovana per il Rojava – Torino ( 19 Maggio 2015)